Un approfondimento sul calo demografico in Italia e sulle sue conseguenze in termini economici, previdenziali e assistenziali.
Uno dei primi concetti che uno studente di economia impara tra i banchi di scuola è il significato di PIL (prodotto interno lordo), ovvero “la misura del valore di tutte le merci ed i servizi finali di nuova produzione di un paese in un anno”, dato usato per misurare numericamente il volume di un’economia, la sua ricchezza rispetto alle altre e, osservando le fluttuazioni, lo stato di salute della stessa.
L’equazione base del PIL è:
PIL= C+I+G+(Exp-Imp)
PIL= Consumi+Investimenti+Spesa pubblica + (Export-Import)
Qual è la correlazione tra questa premessa molto scolastica e l’argomento odierno?
Presto detto: i Consumi privati (C) sono la voce principale; in Italia hanno rappresentato il 57,3% dei quasi 1800 miliardi di PIL di un anno, nella fattispecie il 2021. Gli stessi consumi dipendono prevalentemente da un fattore, ovvero dalla crescita della popolazione.
E’ facile intuire come se, ad un aumento di stipendio di un lavoratore, non necessariamente corrisponda un immediato aumento di spesa di pari ammontare, viceversa la nascita di un figlio obblighi ad incrementare le uscite di cassa della famiglia, a prescindere dalle condizioni salariali.
Per riassumere i precedenti concetti, si può affermare che il motore principale della crescita sia proprio l’incremento demografico.
Ebbene purtroppo il Bel Paese non brilla dal punto di vista della natalità, tutt’altro, visto che ogni anno perdiamo qualche centinaia di migliaia di persone, con conseguenze strutturali ben analizzate da Federico Fubini, vicedirettore del Corriere della Sera, in questo articolo.
Il trend delle nascite, già in crisi discendente dalla fine degli anni ‘70, dopo il Covid è ulteriormente peggiorato a soli 400mila nuovi bambini per anno, con una media di figli per donna scesa a 1,22.
Evidentemente se ogni donna genera in media “un figlio e poco più”, la popolazione negli anni non farà altro che diminuire, dato che per mantenere invariato il numero servirebbero almeno 2 figli a donna.
Coerentemente con il dato demografico, anche la nostra economia di fatto non cresce dal 2000. Lo stesso vale per i salari reali che, anzi, sono decresciuti, visto che i lievi adeguamenti di stipendio non sono andati al passo con l’incremento dei prezzi dovuti all’inflazione, di cui abbiamo scritto qui e qui.
Urge quindi intervenire al più presto, per invertire quello che sembra un trend irreversibile per la maggior parte dei paesi occidentali avanzati.
Le possibili soluzioni per tamponare il problema relativo alle nascite sono due, ma entrambe presentano svariate criticità e sono difficilmente attuabili nel breve termine.
La prima e probabilmente la migliore delle due nel lungo periodo, consiste nella pianificazione di consistenti e costose riforme a favore della natalità, visto che è molto difficile garantire la stabilità economica alle coppie desiderose di figliare, a causa del basso salario medio giovanile rispetto al costo della vita.
Tramite contributi monetari, scuole dell’infanzia accessibili, aiuti agli studi almeno fino al diploma, detrazioni fiscali per il nucleo familiare e vantaggi fiscali al datore di lavoro in fase di assunzione, il fenomeno di denatalità verrebbe quantomeno rallentato. La verità però è che i sopracitati provvedimenti avrebbero un costo di qualche centinaio di miliardi nel corso dei decenni. Conoscendo il frequentissimo ricambio al vertice dello scenario politico italiano dalla fondazione della Repubblica ad oggi, risulta quantomeno improbabile che un pacchetto di riforme così esose e perduranti nel tempo venga rifinanziato per tutte le decadi necessarie.
La seconda soluzione è quella di far diventare cittadini italiani, immigrati di diversa nazionalità.
Anche questa strategia ha delle enormi criticità e si inserisce in un quadro socio-politico assai complesso. Si dovrebbero implementare e modificare le regole di ingresso dei flussi migratori, e in primis rendere l’Italia un Paese appetibile anche per il rientro dei tantissimi italiani che sono emigrati all’estero (la cosidetta “fuga dei cervelli”): si stima che Ogni anno, circa 100 mila cittadini italiani emigrino.
Tra le difficoltà si insinua anche il fatto che, di frequente, i flussi migratori nel nostro Paese riguardano persone provenienti da realtà socio culturali distantissime dalla nostra, molto spesso con bassa o nulla scolarizzazione, e che dunque faticano ad integrarsi in un tessuto sociale strutturato e complesso tipico di un paese avanzato quale il nostro.
Se da una parte gli italiani rischiano di scomparire, come afferma il New York Times in un recente articolo in prima pagina, dall’altro sussiste anche un grande interrogativo temporalmente non molto distante da oggi, che attanaglia il sistema del nostro welfare state.
Proviamo a chiarire meglio il punto. L’Italia, come la maggior parte delle economie avanzate, è uno stato che vede come prima voce di spesa pubblica il mantenimento dello stato sociale o welfare state. Solo nel 2022 si tratta di una cifra pari a 615 mld, quasi un terzo del PIL per intenderci, una cifra enorme, che non fa altro che aumentare di anno in anno, visto il progressivo invecchiamento della popolazione e la conseguente necessità di provvedere da parte dello stato in termini sanitari e pensionistici.
Studiando i grafici della distribuzione della popolazione “fotografata” nel 2022, si nota un preoccupante fenomeno:
Ad oggi, nel 2023, le fasce della popolazione italiana più numerose sono quelle comprese tra i 45 e i 59 anni (Generazione X). Stiamo parlando di 13 milioni di persone, che oggi rappresentano il nocciolo della classe lavorativa, e che a partire dai prossimi anni ed entro i prossimi due decenni sarà interamente pensionata. Viste le premesse sulla crescita economica e sulla denatalità, la spesa necessaria per coprire questo enorme ammontare di pensioni future sarà semplicemente insostenibile per le casse dell’INPS.
Tiriamo le somme con delle semplici previsioni per il 2050:
Gli over 65 rappresenteranno il 35% della popolazione, mentre gli under 14 appena il 12%
Il volume dei decessi sarà doppio rispetto a quello delle nascite
Il rapporto lavoratori/pensionati peggiorerà di molto, dall’attuale 1:5 ad 1 a 1, traducibile con un aumento della popolazione che assorbe risorse e una diminuzione della fetta che le produce.
Questi dati non devono però allarmare, ma far riflettere sul comportamento da adottare a partire dal presente per garantirsi un sereno tenore di vita anche nel lungo periodo e negli anni della pensione.
Nei prossimi articoli ci focalizzeremo su metodologie di risparmio e investimento che un lavoratore può oggi adoperare per rendere più sicura e florida la propria situazione finanziaria per l’oggi, ma soprattutto per il domani.