Nel precedente articolo abbiamo introdotto un quadro generale su due rilevanti questioni che attanagliano il Bel Paese: la crisi demografica e l’invecchiamento della popolazione.
Abbiamo poi illustrato gli effetti concreti dei due precedenti fenomeni, ovvero la contrazione dei consumi e l’incremento della spesa pubblica in ambito welfare, dovuta ad uno squilibrio tra il numero di cittadini che assorbono risorse (pensionati) e quelli che le producono (lavoratori).
In ultima istanza si è iniziato a parlare della struttura del sistema pensionistico e delle inevitabili riforme che lo interesseranno nei prossimi decenni.
Oggi continueremo il discorso sul macro-tema del sistema pensionistico. Per prima cosa, faremo un excursus storico sulle principali tappe ed evoluzioni di quello italiano; in seguito, confronteremo il funzionamento della previdenza sociale in Italia e nel mondo anglosassone. In questo modo introdurremo il tema della previdenza complementare e dei piani di accumulo finanziari come strumenti per generare entrate supplementari rispetto al mero introito della pensione.
Il primo sistema pensionistico italiano nasce nel 1898 tramite la “Cassa Nazionale di Previdenza, per l’invalidità e la vecchiaia degli operai”, cui era possibile aderire su base volontaria e finanziata dai contributi dei suoi iscritti. Essa erogava una rendita vitalizia a chi avesse superato una certa età o a chi non fosse più abile al lavoro, ai fini di tutelare il contribuente e la sua famiglia.
Dal 1919 questa sorta di assicurazione diventò obbligatoria sotto il nome di Cassa Nazionale, che in epoca fascista cambiò più volte denominazione, per arrivare al 1944, data in cui viene adottata la dicitura INPS, istituto nazionale di previdenza sociale, tuttora in uso.
Nel corso dei decenni si sono susseguite svariate riforme del sistema pensionistico. In ordine cronologico, le più importanti sono quella del 1975 con l’introduzione della “scala mobile” negli stipendi e pensioni (adeguamento dell’ammontare percepito in base al valore dell’inflazione del periodo).
A seguire, la riforma Amato del 1992, che va a modificare il meccanismo della scala mobile, diventato insostenibile per le casse dell’INPS.
Ancora, la riforma Dini del 1995 che, seguendo una logica di equità redistributiva, trasforma il sistema pensionistico da retributivo (quello della scala mobile che avvantaggiava le generazioni passate) a contributivo (in cui i nuovi pensionati percepiscono un ammontare calcolato sui contributi versati, indipendentemente da dinamiche inflazionistiche).
Più recentemente si sono susseguite le riforme Fornero che, in un’ottica di taglio dei costi, ha alzato l’età pensionistica, e quella Salvini, quota 100 (ora in discussione 103). Quest’ultima, visto il forte dissenso generato dalla precedente manovra, ha facilitato l’accesso alla pensione ad una cospicua fetta di lavoratori precoci con almeno 62 anni anagrafici e 38 di contributi versati alle spalle.
A questo link puoi trovare un approfondimento dettagliato sulla pensione a te spettante e sulle sue modalità di calcolo.
Per un calcolo personalizzato c’è anche la pagina dedicata sul sito dell’INPS, cui accedere tramite SPID.
Una volta conclusa la finestra lavorativa di una persona, generalmente gli unici introiti certi sono rappresentati dal TFR (una tantum) e appunto dalla pensione mensilmente erogata dall’INPS che, come si è visto, negli ultimi tre decenni è rimasta bloccata o ha subito impercettibili adeguamenti al rialzo.
Nonostante l’ammontare unitario della pensione sia quasi invariato negli anni, la spesa annua che l’INPS deve sostenere è in aumento, visto il costante incremento del numero di pensionati. In particolare nello scorso anno si è attestata a 297 mld ed è prevista un’ulteriore ascesa fino a quota 320,8 mld per il 2023 e a quasi 350 mld nel 2025.
I Paesi mediterranei e del centro Europa si assomigliano quanto a struttura del sistema pensionistico, mentre gli Stati anglosassoni e Nord europei presentano altre caratteristiche.
Se nel primo gruppo il ruolo statale è predominante e imprescindibile nella concreta pianificazione e gestione delle pensioni, nel secondo è concessa molto più libertà di decisione e gestione di questo aspetto al lavoratore.
Tendenzialmente i Paesi anglosassoni hanno un sistema pensionistico e welfare più efficiente rispetto al nostro, quindi alzare lo sguardo e dare un’occhiata, per lo meno per capire quali sono le cause del loro maggior successo, è doveroso.
Entriamo più nello specifico, presentando il funzionamento del sistema pensionistico svedese, considerato uno dei più virtuosi al mondo in termini di efficienza costi/benefici ottenuti.
La pensione in Svezia si compone di 3 elementi:
Sostanzialmente il lavoratore paga una bassa tassazione allo Stato, che gli fornirà poco più di metà dell’ammontare finale pensionistico; riserva un’altra parte dello stipendio al datore di lavoro, che parimenti dovrà sobbarcarsi un altro pezzo della pensione; infine, in maniera volontaria, ma fortemente incentivata, il lavoratore spontaneamente in base a convenienza, sottoscrive piani pensione con compagnie private che porteranno ad un ulteriore incremento dell’ammontare mensile pensionistico.
Circa il 90% degli svedesi adotta la precedente tripartizione pensionistica. Ovviamente i vantaggi sono evidenti: minor spesa pubblica, minor rischio di insolvenza da parte dello Stato, incremento dell’ammontare pensionistico futuro dovuto alla componente investita nei mercati tramite investitori professionali e fondi pensione.
Gran Bretagna e USA non differiscono troppo da questo modello. In America, ad esempio, esiste un sistema doppio, con una pensione pubblica (Social Security) depositata in un fondo fiduciario governativo che compra unicamente bond USA, cui si affianca una pensione integrativa privata.
La Social Security è infatti insufficiente per coprire il costo della vita e, così come in Svezia, sono fortemente incentivate e defiscalizzate le entrate complementari come Piani pensione, piani d’accumulo etc. Una sostanziale differenza col modello Nord Europeo però c’è, visto che negli Usa lo squilibrio nella distribuzione della ricchezza è forte: se è vero che circa la metà della ricchezza privata degli statunitensi è investita in fondi pensione, è altrettanto vero che questa non è distribuita in maniera diffusa, dato che solo il 50% dei lavoratori decide di sottoscrivere un piano pensione privato.
Cosa abbiamo capito quindi? Che esistono, sono ampiamente sicure e rodate diverseconcezioni di sistemi pensionistici rispetto alla nostra, e che non è un’idea così esotica quella di affidarsi oggi ad un piano di accumulo o a dei fondi pensioni, con lo scopo di ricevere un domani delle integrazioni pensionistiche.
Nel prossimo episodio entreremo nello specifico parlando del tema cardine del macro argomento pensioni, ovvero i Piani di accumulo e i Piani pensioni.